Cavalieri o Cavaliere della Repubblica? Un nuovo quesito per il linguaggio di genere.
In prossimità della Festa della Repubblica del 2 giugno, la stampa nazionale ha diramato l’elenco degli insigniti della nomina a Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana e a Cavaliere del Lavoro: un appuntamento ricorrente che puntualmente accende (per poi spegnere dopo poche ore) i riflettori su nostri illustri connazionali, alcuni più noti di altri, che si sono distinti nel proprio campo professionale tanto da meritare l’onorificenza tributata.
Fra gli ultimi venticinque Cavalieri del Lavoro è stata “segnalata” la presenza di cinque donne a completare l’elenco degli insigniti.
Fin qui nulla di anomalo, se non fosse stato per quel “cavalieri” da attribuirsi alle neonominate che è sembrato stridente (solo a chi scrive?).
Stridente con il loro genere e stridente con l’ormai tanto accorto uso del linguaggio di genere, che è da ritenersi fra le più incisive e sensibili derivazioni delle politiche dell’inclusività e delle pari opportunità.
Gli studi sul linguaggio di genere, contrariamente a quanto si possa pensare, non sono una “creazione” moderna: era il 1987 quando veniva dato alle stampe Il sessismo nella lingua italiana, uno studio sull’esistenza di possibili derive “sessiste” (discriminatorie diremmo oggi) nella lingua italiana, commissionato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dalla Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità ad Alma Sabatini. Un’indagine che catturò l’attenzione, suscitando “un interessante dibattito sulla corrispondenza effettiva tra significante e significato, mettendo in luce, tra l’altro, il legame tra discriminazioni culturali e discriminazioni semantiche”, come ricordava Tina Anselmi, allora Presidente della Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità fra Uomo e Donna, nella Prefazione alla ristampa che dell’opera si fece nel 1993[1].
Nel volume del 1987 erano, altresì, confluite le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana (1986), il cui scopo era quello di suggerire alternative linguistiche che si sostituissero a parole, lemmi, espressioni in odore di sessismo, per consentire di “dare visibilità linguistica alle donne e pari valore linguistico a termini riferiti al sesso femminile”.
Per altro verso, l’attenzione ad un linguaggio non stereotipante, non sessista non discriminatorio o allusivo porterà il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti ad integrare nel 2021 il Testo unico dei doveri del giornalista, con la previsione di una norma – l’art.5 bis – che introduce il rispetto delle differenze di genere nella trattazione dei fatti di cronaca riferiti ad episodi di violenza di genere[2].
Dagli inizi degli anni ‘90 del Novecento gli studi e le tutele sulla parità di genere e sulle pari opportunità uomo/donna non solo si sono moltiplicati, ma hanno finito per incidere significativamente in ogni ambito della vita sociale, al punto da essere emancipati dal ruolo marginale in cui erano stati relegati per farli assurgere a veri protagonisti di dibattiti, conferenze e meeting incentrati sul tema.
Sul piano del linguaggio di genere, tuttavia, non sempre le posizioni degli addetti ai lavori sono ancora coese ed unanimi, quasi come se discutere del genere legandolo anche al linguaggio equivalga a far degradare la questione ad un rango puramente formale e di valore effimero, soprattutto allorché il focus della questione è quello dei femminili professionali, ossia i sostantivi che indicano colui o colei che svolge una specifica professione.
E’ diffuso un certo nonsense.
Per professioni e mestieri tradizionalmente o prevalentemente o storicamente svolti da donne e collocati in una sfera medio-bassa della piramide professionale, come maestra, commessa, cameriera, segretaria, cassiera, non si fa fatica ad accettarne la declinazione al femminile. Tuttavia, allorché si promuove l’uso di sostantivi come sindaca, assessora, ministra, avvocata, ingegnera, il femminile diventa inappropriato, cacofonico, inesistente, inutile, ghettizzante e così via[3].
Ciò che sorprende è che la censura si attiva nel momento in cui s’inizia a scalare la vetta delle professioni e dei mestieri tradizionalmente o prevalentemente o storicamente svolti da uomini.
Ad un’accettazione consolidata da una malsana e diffusa abitudine sociale (“si è sempre detto così”) corrispondono le “gabbie mentali”[4] dalle quali, a volte, sono le stesse donne che faticano ad uscire, pericolosamente oscillanti come un pendolo fra l’indifferenza (“tanto non cambia nulla”) e la cieca supponenza (“La senatrice Susanna Agnelli voleva essere chiamata senatore; noi la chiamavamo senatrice, e per questo mi mostrò spesso la sua inimicizia”, così ricorda Sergio Lepri, uno dei padri del giornalismo italiano[5]), ignare del pericoloso agguato al riconoscimento del proprio ruolo sociale che simili condotte rinforzano.
“Il titolo maschile per la donna serve di perenne memento che la carica «spetta all’uomo»”, si afferma nell’introduzione del saggio di Sabatini citato[6].
Tornando, dunque, alla riflessione di apertura del presente scritto e prospettando una soluzione alla questione da essa nata, è più che corretto, sul piano grammaticale, sociale e giuridico sollevare un’eccezione all’uso del termine cavalieri per le professioniste destinatarie delle onorevoli benemerenze del 2 giugno.
Si potrà, dunque, dire Cavaliere (come plurale di Cavaliera) al Merito della Repubblica Italiana e del Lavoro?
La questione, per essere risolta, deve essere tratta su due piani: quello giuridico-formale e quello linguistico-grammaticale.
Nessun problema parrebbe sussistere sul primo profilo, visto che le due onorificenze sono state istituite con legge della Repubblica.
L’Ordine «Al merito della Repubblica italiana» è regolato da più atti: la L.178/1951, il D.P.R. n.458 del 3 maggio 1952 e il D.P.R 31 ottobre 1952.
La L. 194/1986 reca, invece, le norme sull’Ordine cavalleresco al merito del lavoro.
Una semplice interpolazione del testo, nella parte in cui si riferisce ai soli cavalieri e ai cittadini, con l’inserimento del corrispettivo femminile – cavaliera e cittadine – e con la conseguente autorizzazione a fregiarsi del relativo titolo onorifico femminile, riallineerebbe paritariamente la presenza dei due generi nella norma, rispecchiando in modo fedele la realtà sociale.
Più articolata la questione sul piano grammaticale, per la cui soluzione occorre un approfondimento, volto innanzitutto a verificare l’esistenza del termine nella lingua italiana.
Attingendo ad uno fra i più affidabili e consultati fra i dizionari italiani[7], il termine cavaliera esiste ed è riportato con duplice significato.
Il primo rinvia al linguaggio specialistico della geometria[8]; il secondo ne fa un derivato di cavaliere, ma con duplice accezione: nella forma antiquata o scherzosa, cavaliera è “La moglie, o anche la figlia di un cavaliere”; nella locuzione alla cavaliera, deve intendersi “da cavaliere, al modo dei cavalieri: vestire alla cavaliera”[9].
Se la ricerca lessicale consente di ritenere esistente, sebbene antiquato, il termine cavaliera, come femminile di cavaliere, è anche vero che nessuna delle due accezioni autorizza a fare di cavaliera l’omologo semantico di cavaliere, con tutte le sfumature di significato che ad esso si accompagnano, soprattutto sul piano delle qualità morali e spirituali.
Tuttavia, ripescando nel passato della storia italiana, si può scoprire che cavaliera veniva usato con un ulteriore significato, venendo così chiamate le donne che indossavano l’abito monacale dell’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano[10] e, in questa accezione, è parte del titolo del saggio “Nobildonne, monache e cavaliere dell’Ordine di Santo Stefano”, a cura di M. Aglietti[11].
Al di là delle finalità dell’opera citata, è d’interesse per la nostra ricerca quanto ivi riportato con riferimento al termine de quo: “Caduto in disuso nella lingua italiana, era invece utilizzato nella antica lingua toscana a fianco del poi divenuto prevalente cavalieressa o cavalleressa. I due lemmi cavaliera e cavalieressa, però, originariamente si differenziavano per significato: cavaliera era infatti la dama dotata di corteggiatore o piuttosto «colei che difende e sostiene», quindi riferibile ad un individuo di sesso femminile dotato di una propria soggettività ben definita, in un ruolo attivo; mentre per cavalieressa si indicava semplicemente la moglie di un cavaliere, una condizione quindi nella quale era la qualità dell’uomo a caratterizzare l’identità della donna, relegandola in un ruolo passivo”[12].
L’estratto si rivela, a giudizio di chi scrive, cruciale per la soluzione del quesito, in quanto, nell’accezione originaria di «colei che difende e sostiene», come riportato nel testo a cura di Aglietti, cavaliera è l’autentico equivalente semantico del maschile cavaliere e, pertanto, più che idoneo ad essere utilizzato per appellare le donne, le professioniste che vengono insignite delle onorificenze al Merito della Repubblica Italiana e del Lavoro, scalzando e superando anche l’accezione scherzosa tutt’oggi diffusa[13].
Il processo di affermazione linguistica di una parola, lo sanno bene – e meglio di chi scrive – gli addetti ai lavori, tuttavia, non si valida con un’integrazione a penna rossa sul testo di legge o sui dizionari, ma soggiace all’uso che di essa si fa e al “peso” che essa ha.
“Il termine deve rispondere a tre criteri oggettivi: essere usata da un numero sufficientemente alto di persone, per un periodo sufficientemente lungo e, se possibile, in contesti differenziati”[14]. Quindi, si dovrebbe dedurre che l’attesa per l’uso di cavaliera, in luogo di cavaliere, sia ancora lunga.
In realtà, a totale e completa obiezione, deve riconoscersi che l’uso dei femminili professionali, una volta “disturbanti” (perché cacofonici), come sindaca, assessora, avvocata, ingegnera, è ormai ampiamente condiviso e al suo consolidamento dà un enorme contributo, in chiave autenticamente educativa, la televisione[15]; in una prospettiva di accelerazione, dunque, del processo di affermazione anche del termine cavaliera, un’interpolazione dei testi legislativi sopra richiamati potrebbe essere determinante anche per le ricadute sociali che ne deriverebbero.
Ciò consentirebbe di dettare un passo nuovo e ulteriore verso il completo allineamento della posizione fra uomo e donna in una dimensione paritaria e, certamente, più conforme ad una rappresentazione più vera e autentica della realtà[16].
Per far sì che ciò che si dice, esista!
Perché lungo quel binario su cui viaggia il pensiero ci siano sempre meno distinzioni di classe, di ruoli e di genere.
Avv. Anna Pizzimenti
Referente Sezione di Studi Giuridici
S.S.P.A. “G. Sergi”
[1]A. Sabatini, Il sessismo nella lingua italiana, Roma, 1993.
[2] Consultabile su https://www.odg.it/testo-unico-dei-doveri-del-giornalista/24288: la previsione di un dovere deontologico, in capo al giornalista, relativo all’uso di un corretto linguaggio nei casi indicati, ha come conseguenza l’applicazione di sanzioni disciplinari seguenti alla violazione della prescrizione normativa e, dunque, maggior tutela per le donne vittime di violenza di genere, anche nella diffusione delle notizie relative ai crimini subiti.
[3] Si rinvia all’esaustivo saggio di V. Gheno, Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole, Firenze, 2019.
[4] Così P. De Nicola, La mia parola contro la sua, Milano, 2018.
[5] Si veda, più dettagliatamente, in A. Sabatini, Op. cit., p. 17 ss.
[6] A. Sabatini, Op. cit., p. 25.
[7] Si veda, Treccani, Vocabolario, sia nella versione cartacea che sull’omologa on line, consultabile su https://www.treccani.it/vocabolario/ricerca/cavaliera/
[8] Cavaliera: “In geometria, assonometria c., particolare tipo di assonometria, così detta perché inizialmente usata da ingegneri militari per rappresentare lavori di fortificazione”, Treccani, Vocabolario, ivi.
[9] V., Treccani, Vocabolario, ivi.
[10] L’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano Papa e Martire fu istituito nel 1562 per volere di Cosimo I de’ Medici, Granduca di Toscana. Il 1 febbraio 1562, papa Pio IV con la Bolla “His quae Pro Religionis Propagatione” approvò gli Statuti e il 15 marzo consacrò l’Ordine sotto la regola Benedettina e la protezione di Santo Stefano Papa e Martire, conferendo a Cosimo I e ai suoi discendenti il titolo e l’abito di Gran Maestro. Per approfondimenti, si rinvia a www.istituzionecavalieri.it/lordine-dei-cavalieri-di-santo-stefano-papa-e-martire/
[11] AA.VV., Nobildonne, monache e cavaliere dell’Ordine di S. Stefano. Modelli e strategie femminili nella vita pubblica della Toscana granducale, a cura di M. Aglietti, Pisa, 2009.
[12] AA.VV., Nobildonne, cit., p. 6-7.
[13] Inizialmente, si era pensato che un’alternativa plausibile a cavaliere fosse dama, usato in molti contesti associativi e in alcuni Ordini Cavallereschi (in via esemplificativa e non esaustiva, Croce Rossa e Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme), per indicare le donne che ivi prestano la propria opera. Tale ipotesi è stata accantonata, tuttavia, sia per la “riscoperta” dell’accezione trecentesca del termine cavaliera, sia perché dama evocava un inquadramento delle donne in attività esclusivamente o prevalentemente benefiche (V. Dame della carità), sia, infine, perché, dama accentuava un connotato estremamente femminilizzato del ruolo della donna, come sintesi di eleganza, modi e portamento, che l’avrebbero relegata nuovamente ad un ruolo ancillare, rispetto all’uomo, che nell’iconografia tradizionale, e non solo in quella, faceva della dama la moglie del feudatario o del signorotto.
[14] Così, V. Gheno, Femminili singolari, cit., p.28.
[15] Un plauso va agli autori di una delle ultime fiction di Raiuno, “Studio Battaglia”, in cui le protagoniste si qualificano e vengono appellate, anche dai colleghi uomini, con il femminile professionale “avvocata” e “avvocate”.
[16] “Le parole costituiscono i nodi della rete semantica con la quale ci è possibile afferrare e comprendere la realtà che ci circonda”, così Aglietti, in AA.VV., Nobildonne, cit., p. 5.